piccole storie
sabato 18 giugno 2011
Remo
"facciamo dei disegni" e, preso un foglio bianco, con una penna rapidamente Remo disegna lo schizzo di un rapporto sessuale a tre: i volti sono tutti simili e brutti, i generi distinti solo dagli evidenti attributi e dalla lunghezza dei capelli; la donna è in mezzo a due uomini ed è visibilmente gravida.
Alla mia affermazione che il sesso è bello forse anche in gruppo ma che una donna incinta deve far più attenzione delle altre risponde subito che questa è puttana. Mi propone un secondo disegno dove un volto femminile sereno e delicato è incorniciato da ampi veli ed intorno fioriscono iris come in un tappeto persiano. "questa è una donna" mi dice.
Non commento mai, valuto magari, e posso consigliare solo su alcune cose tipo mettiti sempre il preservativo...
Remo esce dalla stanza e rientra in un lampo ed ha con se un astuccio sdrucito di pelle scura, con all'interno delle cose di carta e alcune foto.
Apre un foglio protocollo ingiallito, come quelli che si usavan anni fa, le righe calcate un pò sul grigio e con i margini in rosso.
Ordinatamente, riga dopo riga, in ordine cronologico famigliare, sul protocollo si susseguono scritti a penna una serie lunghissima di "Sharpi", il cognome della sua Famiglia.
Ad ogni riga corrisponde il nome di un parente, seguito da una data, una località internazionale con un numero telefonico e a volte una data finale con una nota, ad esempio:
Sharpi Florika; 10-01-1975; germania; 3332565265 (vedova)
oppure:
Sharpi Theo 01-01-1930 Sarajevo 11-12-1995 (morto?);
il foglio non bastava comunque ad elencarli tutti, aveva dovuto fare una cernita eliminando i famigliari più lontani, come chi vive oggi in America.
Gli Sharpi presero da sempre molto sul serio la missione di andare e moltiplicarsi affidatagli dalla Bibbia, fu così che già solo la nonna ebbe 21 figli successivamente sparsi per il Mondo, tra cui sua madre, condivisa con solo altri 5 fratelli tra maschi e femmine, essendo lei una donna molto più moderna era stata attenta a non esagerare; una madre che aveva anche conservato il cognome nonostante i diversi matrimoni, vista la nullità dei vari uomini incontrati nella vita.
Come quest'ultimo personaggio più anziano con cui madre e figlio, grazie una vecchia e scassata macchina definitivamente parcheggiata nel porto di Genova, erano da poco arrivati in Italia.
Una vita un po’ nomade è nella tradizione di casa, anche se la rivendicata appartenenza ad un mitico gruppo Ungaro fa sempre fare una netta distinzione a Remo, nel senso che lui non si considera un Rom. Gli ultimi tempi li hanno passati vivendo con quell'uomo, violento e profittatore, al quale si sentiva costretto non solo per una sorta di insana riconoscenza. L'uomo che senza problemi lo "prestava" ai suoi amici ed alle loro pretese ha nelle sue mani, possiede, le cose e la vita di chi ha la disgrazia di stargli accanto; è il padrone di sua madre.
I soprusi subiti da Remo sono penetrati in profondità ed i segni lasciati sono visibili quanto lo sono per lui i mostri che gli girano intorno appena chiude gli occhi, forse non se ne andranno tanto presto, come la sensazione d'esser sempre in balia del volere altrui, d'esser corporalmente in mano ad altri, anche questo non sarà facile da vincere dal suo fragile fisico.
Anche perché a tutt'oggi il suo corpo viene alla fine manovrato e spostato da altri, entrare in una Comunità, uscirne, affidarsi a educatori ed assistenti e vederli spesso sostituire. Ogni tanto cambiare città e tenersi nel cuore la paura che un giorno l'orco che possiede sua madre possa tentare di riprendersi anche lui. La paura di doverlo magari uccidere,,,
Ed infine sua madre che è bella anche se ora non sembra ed è una lavoratrice anche se costretta a chieder l'elemosina e soprattutto vorrebbe viver vicina a qualcuno dei suoi figli...anche se non può.
Le fotografie della campagna Rumena hanno i colori sbiaditi degli anni 80 ed il sapore dimesso dell'Est Europeo, raffigurano un pò tutte le belle giornate d'estate con i cavalli liberi al pascolo e le montagne verdi dei Carpazi, e persone d'ogni età. Fratelli, cugine, zie e parenti vari, mi indica sua madre ancora ragazza con una bimba appoggiata al fianco... una moltitudine in una delle rare e festose riunioni di Famiglia. Poi i sereni racconti dalla Scuola Primaria e la passione per la matematica, mi spiega che lui ragiona con la matematica per capire il mondo; ricorda bene tutto quello che ha studiato ed è pronto a studiare nuovamente, per diventare magari infermiere.
Remo è estremamente gentile, quasi che voglia restituir la violenza subita trasformandola in amore, incondizionato. Sostiene che lui saprebbe come far bene del bene, che vorrebbe in futuro "prendersi cura" degli altri, dei malati. E ultimamente ha pensato a lungo al fatto che in fondo a quindici anni non è troppo tardi per ricominciare.
g"10
lunedì 13 giugno 2011
Azadiya: 11 donne elette nel blocco kurdo
martedì 7 giugno 2011
husseyn
Hussein scappa veloce dal suo villaggio. Corre e non si guarda intorno per l'ultima volta, non saluta i campi inariditi e le alte montagne lungo l'unica via per uscire dalla valle. Davanti ai suoi occhi ha solo la strada, tortuosa e sterrata, che conduce a Est,,, al Pakistan.
Hussein non smette di correre per molti chilometri prima di incontrare un grosso camion; ha con sé una sacca con un po’ di pietre dure, alcune a forma di goccia in lapislazzuli: “lacrime azzurre”. Il camionista, in cambio di qualche preziosa “lacrima”, lo aiuta ad attraversare la frontiera… respirando polvere sdraiato sotto al telaio, legato con la cintura ai ferri della carrozzeria. Il dolore è davvero insopportabile quando, alle prime luci del giorno, il camion viaggia ancora veloce. Sono passate ore e ore. Mai nella sua giovane vita tribale Hussein si era sentito così stanco, così vicino a lasciarsi andare, e mai più gli accadrà in futuro.
Cadere, chiudere gli occhi e lasciarsi andare... e pensa. Rivede suo fratello, sua sorella, sgozzati entrambi, li rivede accasciati sul pavimento. Vede suo padre morto sparato nel giardino di casa, per mano dell'amato zio. L'uomo che il mattino stesso aveva decretato la morte di tutta la famiglia. Ammazzare tutti per prendersi tutto. Tutto il gregge, tutto l'aspro e freddo terreno intorno alle poche case d'argilla, tutto l'invidiato "benessere" di una famiglia d'allevatori Hazari,,,
Hussein pensava, ma non piangeva, allora.
Mancava Hussein quel pomeriggio fatale in famiglia, come ogni giorno il mattino presto andava a bottega. Imparava a cucire e costruire le scarpe per poi rincasare a sera. Non rientrò mai più a casa.
Abbandonato l'Afghanistan non gli è difficile continuare la fuga, in quelle terre nessuno chiede i documenti e in un'incredibile promiscuità di varie umanità un tredicenne robusto viene presto arruolato per diversi usi e servizi..
Hussein viene spinto nel giro della lotta clandestina; lavora per un brocker delle scommesse di strada, facendosi massacrare da agguerriti coetanei agli angoli della casbah pakistana affollata di adulti esaltati e urlanti. Poi impara ad essere lui il più violento. Non cambia la misera ricompensa, ma riesce a non farsi spaccare le ossa.
Tornare indietro, tornare al Villaggio. Voleva dire ritrovare la propria realtà, l'unica in cui immaginarsi. Ed incontrare la morte. Il Clan Talebano è comandato dallo Zio fratricida e l'intero villaggio è in mano loro. In quella lontana faida arcaica Hussein è l'unico erede legittimo di ciò che in quel mondo rappresenta la ricchezza.
Hussein passa dei mesi lavorando duro ovunque gli capiti l'occasione, spostandosi appena può. In Iran riesce a salire su un Cargo come clandestino, la nave batte bandiera Ellenica e lo sbarca imprigionato in Grecia. Dalle Autorità non gli viene riconosciuta la minore età e viene detenuto in strutture per immigrati illegali; adulti, dove ogni lacrima che ti sfugge ti riporta a zero.
Hussein è determinato ad entrare in Europa e grazie a dei suoi connazionali lavora in nero nei porti e si paga un "passaggio" in una bara di ferro: un container su un Cargo per l'Italia. 4000euro.
Quando stanno finendo i pochi frutti e i biscotti che Hussein aveva con sè sono passati diversi giorni. In cinque in un container già pieno di merce, accatastato con altri cento sulla coperta d'una nave, ci si dà anche fastidio, gli escrementi puzzano e qualcuno non parla più da ore, però si sente che respira. Nessuno aprirà i sigilli prima del Porto di Ancona. Un uomo moribondo piange e prega, Hussein non piange, non gli viene, canta sommesso le nenie di sua madre. L'acqua sà di plastica e comunque è quasi finita,,,,
Quando la Guardia di Finanza spalanca le ante di ferro della cassa la luce è abbagliante, Hussein non vede neanche chi lo sta sollevando e portando su una barella. Voci e luci e un ospedale, parole in italiano.
Hussein ha richiesto la "protezione umanitaria", lo status di rifugiato, ne ha tutte le caratteristiche ed i diritti. E' stato informato da volontari, operatori di Associazioni che si occupano di questo aspetto della disperata e disgraziata Epopea moderna.
Ora che gli è stata riconosciuta la validità della motivazione lui entra in un programma di tutela: scuola, salute e (si spera) lavoro, questi mesi li ha passati in una struttura da 10 posti, tutti ragazzi. Le sue disavventure gli hanno lasciato cicatrici invisibili ma intime. Presto dovrebbe cambiare "famiglia". Un gruppo più piccolo, più domestico, dove magari non debba temere i muri o le finestre.
Quando ora osservo la pietra che mi ha donato, quando la tengo tra le dita o la stringo nella mano, il giallo ocra che la pervade cambia leggermente di tonalità. Credo abbia delle sue particolari proprietà.
Sono sicuro che Hussein troverà luoghi e dimensioni in cui gli incubi che lo fanno sudare ed urlare la notte si possano allontanare, dove col tempo possa ritrovare la speranza e la quiete, e non più le lacrime scorrergli improvvise sul volto, senza sapere il perché.
g,
venerdì 3 giugno 2011
lampedusa
"una danza d'amore, fratellino mio
la mia ultima danza d'amore
leggera attraversa tutto l'azzurro
nella frenesia argentata del vortice
al quieto profondo del blù
la posidonia ondeggia e m'accoglie
non esser geloso fratellino
sono mille braccia tese alla luce
il mio esclusivo corpo di ballo
su cui lentamente appoggio i mie gesti
e lascio s'avvolga elegante la soffice sabbia
alla mia pelle lucida e ambrata
nella più bella delle mie pose
che mai ho regalato al mio sposo
ma non aver nostalgia o rimpianto
continua così ti prego a vedermi
con solo una leggera cipria soffice e bianca
a colorare il volto che ogni uomo ha innamorato
ricordami all'aria del mattino al sole della sera
conserva nello sguardo il mio ultimo saluto
in una silenziosa danza d'amore, fratellino mio"
giovedì 26 maggio 2011
il giovane Mesud
Mesud ha chiamato da Parigi. Non è contento: troppa gente abita in quella Città.
Il francese è ancora più difficile dell’italiano e di lavoro non se ne trova, tutto il giorno in giro e finisci col parlare solo coi Paesani.
Vuole tornare a Genova, da noi, e pensa di farlo entro ottobre, è un ragazzo robusto ma al Nord in gennaio si gela e lui ha un ricordo tiepido dell'inverno Ligure,.
Il viaggio di Mesud è un viaggio di ritorno, ed è così dalla sua partenza.
Tempo fa, un pomeriggio, volevo fargli capire quanto è pericoloso sfrecciare per gli stretti vicoli in sella ad una mini bicicletta senza freni, o pedalare indemoniato nel traffico cittadino senza alcuna protezione.
Tra le argomentazioni usate per dimostrarmi che lui è da sempre campione perciò figuriamoci un po’, tira fuori da “youtube” un breve filmato.
Un ragazzino amico suo, rifugiato in Germania, ha messo in rete il video registrato con un cellulare quattro anni prima, “girato” per scherzo tra ragazzi in un paesino di montagna nel sud della Turchia, presso il confine con la Siria.
Allora vedo Mesud a dieci, undici anni, coi sue due compari tirar pietre agli steccati, ridere come matti e spintonarsi lungo una strada sterrata. Una solitaria motocicletta li raggiunge, l’uomo che la guida li conosce, due parole bonarie ed un sorriso poi da gas e riprende la sua corsa sollevando la polvere, resa arancione dal tramonto.
Ancora urla e scherzi e in un giro su se stesso il giovane regista inquadra i prati tutt'intorno, i bassi muretti a secco, gli alberi sempreverdi vicino alle case in tinta chiara dal tetto piatto, si sofferma sull'unica vetta edificata: il Minareto, e sulle alte cime del paesaggio montano.
Il filmino si conclude con il faccione ridente di Mesud bambino, che saluta.
Non che mi sia sembrato molto diverso da Mesud adolescente, e non solo per fare una battuta sul suo carattere giocoso.
Non si capacita del perché mai non può esser ancora laggiù, ancora non capisce la sua missione, quella che hanno affidato a lui gli stessi genitori, che trascende il legame parentale diventando una questione Culturale e Umana.
Ma lui forse non vuole tutta questa responsabilità. Ne farebbe volentieri a meno.
Come altre migliaia di donne e di uomini, sparsi in Europa a tener viva una lingua e un’istanza di Liberazione di fronte alla sordità interessata dell’Occidente.
Appresi i rudimenti della convivialità europea, Mesud diversi mesi fa è partito da Genova per la Francia, con spirito d’indipendenza e determinazione. Poco tempo dopo viene affidato, dalla Protezione Rifugiati d’oltralpe, ad un cugino adulto residente a Parigi.
Al telefono ha raccontato che qualche soldo lo tira su, anche per telefonare, perciò si farà vivo lui, presto.
Del resto Genova è ospitale, per riprendere il cammino può andar bene, magari per studiare; e poi ad andar “a stecca” in bici per i vicoli si rischia al massimo qualche accidente dai passanti.
Un intero Popolo costretto ad iniziare un viaggio che è di ritorno dalla sua partenza. Qualcuno lo intraprende lungo i sassosi sentieri di montagna con il mitra in spalla, morendo Martire e Partigiano, ricordato da un fiore virtuale su internet; altri in fuga dai villaggi bombardati e profughi nei Paesi vicini; chi invece morendo in carcere, dopo un lungo digiuno di protesta, con l’etichetta infamante di terrorista.
E chi come Mesud in esilio forzato, ma lui, da buon adolescente, non la vuole dar vinta a nessuno.
E mi provoca un moto di solidale simpatia quando ostinatamente insiste a non accettare questa realtà: il non poter essere ora laggiù, nel suo Paese, il Kurdistan.
g,
giustizia divina
Non ha ancora vent'anni, un ragazzo esile e gentile nei modi, dallo stile anglosassone impastato con la profonda quiete che infonde il paesaggio assolato ed infinito dell'Africa; la voce è calma e dai toni bassi, le pause frequenti riempite dallo sguardo in cerca di un orizzonte lontano e invisibile, sempre presente. Il suo è un nome cristiano, molto. Si chiama Justice Lord, "Giustizia Divina", ed in quella di sicuro lui confida.
Lentamente alza il braccio, la sua mano sfiora la Carta e con le dita segna il punto geografico di Harare, Capitale devastata da saccheggi e violenze di un Paese decimato dal contagio di malattie indicibili: lo Zimbawe.
Da lì il dito scivola dritto al Sudafrica per attraversarlo di netto e scendere sino a Città del Capo, metropoli così tanto ricca e moderna da essere una enorme riserva di risorse a cui attingere per poi affrontare la traversata del "mondo", meta obbligata nell'esodo dall'Africa anche per Jostice, per "far sù" due indirizzi utili e qualche dollaro ancora.
Dopo aver stivato il piccolo Cargo di corpi Africani sino quasi a farlo affondare, il Capitano decide per una rotta lunga cinque giorni di navigazione, adatta ad evitare i guardacoste Libici, Maltesi, Greci ed Italiani, almeno sino alle acque Nazionali di Lampedusa, due litri di acqua e nulla più è concesso portarsi appresso, anche se hai bambini.
E allora dovrà studiare e lavorare, recuperare e ricostruire la sua vita qui, in Europa, come molti altri "nuovi Sapiens". Portando così nuova linfa a quei Popoli che in questo stanco Continente stanno invecchiando e somigliando anche nei destini sempre più all'antico "Neanderthal".
g,